“Ha lo sguardo da killer. Ha la morte negli occhi“.
Mi è tornato in mano “Aikido Tadashi Abe. Metodo Morihei Ueshiba“, scritto qualche anno fa da uno dei pionieri dell’Aikido Italiano, Pier Domenico Anzalone.
La lettura è interessante perché offre una testimonianza diretta delle prime persone che in Italia sono entrate in contatto col mondo dell’Aikido.
Presso un club di Judo di Marsiglia, gestito da Jean Zin, negli anni 50 del secolo scorso si sono avvicendati Minoru Mochizuki, Tadashi Abe e Kenshiro Abbe e da lì, attraverso un evento a Sanremo nel 1959 l’Aikido iniziò a proliferare attraverso la rete dei circoli di Judo, nel nord Italia.
Di quella fase pionieristica, chi ci è passato racconta di allenamenti durissimi e di aneddoti come quello occorso a Marsiglia, con Tadashi Abe.
Il gruppo di pugili che si allenava nel circolo di Jean Zin chiese che Tadashi Abe non entrasse in palestra perché il suo sguardo turbava gli allenamenti.
“Ha lo sguardo da killer. Ha la morte negli occhi”. Appunto.
Di recente ho assistito a uno scambio di prospettive, sul web, proprio sulle figure di Mochizuki e Abe. Uno scambio in cui da una parte si cercava di tramandare le origini del movimento (e la sua marzialità, qualunque cosa si intenda con questo termini); dall’altra si sottolineava come la mitizzazione delle figure del passato possa essere un limite per la trasmissione stessa della tradizione.
Ma non è questo che ci interessa, ora.
Piuttosto, la riflessione nasce da questi due elementi: lo sguardo e la morte.
Nella pratica di una disciplina marziale e di uno sport da combattimento, ci si culla ogni tanto nella romantica percezione di sé come di guerrieri che sfidano la morte. Che accettano la sua compagnia.
In tanti anni di tatami abbiamo visto nasi rotti, caviglie slogate, spalle lussate, e un assortito florilegio di casi di ortopedia. Il più delle volte generati da disattenzione e inconsapevolezza.
Certamente mai e poi mai abbiamo partecipato a duelli all’ultimo sangue: chi sta in piedi torna a casa, chi non ce la fa finisce sotto il tatami…
Anche la filmografia -la mitologia dell’epoca contemporanea- ricama parecchio sullo sguardo. “The eye of the tiger – l’occhio della tigre” di Rocky è iconico.
Si può allenare lo sguardo? Certo che si può. Anzi, si deve.
Attraverso i sensi, e dunque lo sguardo, la nostra percezione deve espandersi il più possibile, entrando in connessione con quanto ci circonda. In primis: il compagno di pratica.
Compagno, appunto. Non nemico da abbattere. Partner con cui crescere esplorando i reciproci limiti.
A che serve allenare lo sguardo? Ad avere “la morte negli occhi”?
Qualche giorno fa una persona mite e generosa, che aveva praticato per qualche tempo insieme a noi, è morta improvvisamente, tra le braccia della moglie.
Questa donna ha avuto letteralmente “la morte negli occhi”.
Ma questa donna, che pure si è vista distruggere in pochi istanti il progetto di vita con suo marito ha saputo avere la morte negli occhi per restituire a sé stessa e a noi che eravamo lì “per consolarla” la potenza della vita nel suo crudo, crudissimo realismo.
Nell’accettazione di un colpo tremendo, che ti piega, ha scelto di rialzarsi subito -come del resto ci ha insegnato in tutti questi anni di Aikido. E ha saputo donare, all’imbarazzo dei presenti, la sua pace.
Non scriviamo queste poche righe solo per ricordare un amico o per onorare la vera forza di una nostra senpai.
Fermiamo qui pochi pensieri per ricordarci che tutto quello che facciamo può condurci in un vicolo cieco come elevarci e migliorarci.
Nel caso specifico di una disciplina marziale, le ore, i mesi, gli anni, una vita di allenamenti devono pur servire a qualcosa.
Passare alla storia perché il proprio sguardo terrorizza i presenti… Magari eccita la fantasia di qualche adolescente (anche qualche adolescente attempato). Forse garantisce la notorietà attraverso qualche libro, qualche scritto, per qualche decennio oltre la propria morte.
Certamente fa più rumore di chi la vita e la morte la vede negli occhi delle persone accanto, la sa accogliere e sa fiorire anche da un ramo spezzato.
Katsujinken, setsunin-to, la spada che dà la vita, la spada omicida…
Per che cosa ci alleniamo, alla fine?
Disclaimer: foto di Simone Lunghi da Pexels